Il vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi: “Bisogna ritornare alla profondità incompiuta del Concilio Vaticano II, come sta cercando di fare il Papa”. E ancora: “Il sacerdote deve sentirsi destinato, prima ancora che ad una comunità, al presbiterio di cui fa parte: solo se all’interno del presbiterio ci sono relazioni calde, vere, si può fare un cammino nella santità”. E resistere alla varie forme di “dipendenza”.
Preti liberi dalle cose e da se stessi, che rammentano a tutti che abbassarsi senza nulla trattenere è la via per quellaltezza che il Vangelo chiama carità; e che la gioia più vera si gusta nella fraternità vissuta. Risuonano ancora, ad Assisi, le parole contenute nel messaggio inviato da Papa Francesco ad inizio dei lavori dellAssemblea straordinaria della Cei. E a confrontarsi con un progetto di riforma per la vita del clero nelle nostre chiese sono i vescovi italiani, a partire dalla formazione permanente e dalla questione dellappartenenza al presbiterio. Ne abbiamo parlato con monsignor Francesco Lambiasi, vescovo di Rimini, intervenuto ieri sera in Aula su questo tema, dopo la prolusione del cardinale Angelo Bagnasco.
Quali sono le linee della riforma su cui si stanno confrontando i vescovi?
Bisogna ritornare alla profondità incompiuta del Concilio Vaticano II, come sta cercando di fare in tutti i modi e con tutti i toni Papa Francesco. Il Concilio ha riscoperto la realtà del presbiterio, perché è ritornato alla concezione di questultimo che avevano i padri della Chiesa, a partire dal Nuovo Testamento. Se leggiamo SantIgnazio, parla di presbiterio: una categoria, questa, che è diventata puramente logistica, in quanto indica semplicemente un luogo fisico: la parte della chiesa riservata ai presbiteri. Secondo la concezione del Concilio, invece, il presbiterio non è tanto un luogo o unorganizzazione, ma un organismo, qualcosa di vivo e di vitale. Il presbiterio comprende anche il vescovo, sotto la cui guida è posto. Riforma vuol dire dunque, in questa prospettiva, ritornare alla concezione alta del presbiterio che troviamo nelle fonti delle Scritture e nella tradizione.
Quali sono i nodi da sciogliere?
Innanzitutto bisogna affrontare lidea di formazione permanente che non può essere ridotta solo ad un aggiornamento teologico-pastorale. San Paolo, nella lettera a Timoteo, lo esorta a ravvivare il dono di Dio che è in te. La vocazione sacerdotale è un fuoco che bisogna continuamente tenere acceso, il pericolo è che questo fuoco si spenga. In Italia abbiamo un
clero sano, ma che rischia di soffocare per le tante incombenze che deve assolvere. Perché un prete sia quello che deve essere, prima di tutto deve essere un con-presbitero: guai se un sacerdote è solo, guai se un vescovo è solo. Un vescovo che sente lamore per il presbiterio è un vescovo che fa il vescovo. Bisogna tornare allidea alta di formazione permanente come cammino paziente verso la santità.
Qual è il risultato del cammino di ascolto fatto nelle diocesi sulla situazione dei nostri preti?
Lurgenza dei nostri sacerdoti è di poter essere preti: il rischio sempre in agguato è quello dellattivismo, di rimanere preda di una serie di funzioni. Per essere quello che deve essere, il prete deve sentirsi membro attivo del presbiterio: allora può trovare finalmente nel ministero stesso e nelle sue attività non un ostacolo, ma unoccasione di esercizio del ministero presbiterale e di santità.
Come vincere la tentazione dellattivismo?
Il prete non può essere tale da solo: la comunione con il presbiterio deve sempre avere la precedenza, altrimenti il prete rischia di sbilanciarsi e si consuma.