NELLA STRISCIA SI ALIMENTA UN ODIO CRESCENTE

A Gaza è quasi stato islamico. L’impressione è quella di una situazione esplosiva.
Ogni promessa è debito. E così è stato con il viaggio in Terra Santa edizione 2015. Cei e Fisc, da quattro anni, danno vita a una selezionale nazionale. I vincitori vanno poi a toccare con mano opere realizzate grazie ai fondi 8xmille. Don Mario Cornioli, sacerdote Fidei donum della diocesi di Fiesole, è in servizio al patriarcato latino di Gerusalemme da oltre dieci anni. Lo scorso anno ci lanciò la provocazione: “Dovete andare a Gaza. Voi che siete giornalisti non potete non vedere quel che lì accade”. Detto e fatto. Non solo don Mario è uno degli iniziatori dell’opera Hogar Nino Dios a Betlemme, una casa-famiglia in cui vivono alcune suore con 25 bambini alcuni disabili e altri senza nessuno, ma è anche un grande lascia-passare per entrare in ogni situazione complicata che si presenta in Terra santa. E’ grazie a lui che siamo potuti entrare nella Striscia di Gaza. Un’occasione unica, anche e soprattutto per le difficoltà, da parte dello stato di Israele di rilasciare autorizzazioni all’ingresso. Infatti anche per noi si è dovuto ricorrere a un’insistenza per giungere al sì definitivo. Al valico di Erez, dopo le consuete domande di rito e i rilascio del permesso accordato in precedenza, si entra nella terra di nessuno. Un tunnel di rete lungo 1.200 metri, accanto al muro che delimita il confine, conduce ai container in cui trovano posto gli uffici di frontiera di Fatah. Lì ci accoglie l’altro don Mario, il parroco di Gaza. Poche formalità per poi andare al controllo di Hamas, il gruppo che ha il vero potere nella Striscia. I tempi sono un po’ più lunghi, ma poi si riesce a transitare. Gaza si presenta subito nella sua drammaticità. Le strade sono piene di crateri e di buche. L’asfalto si alterna alle piste di terra. La circolazione è casuale. Molti vanno contromano, soprattutto per evitare dossi e avvallamenti. La carreggiata è piena di asini che trainano carretti stracolmi di robaccia. Subito si notano palazzoni anneriti dai bombardamenti. E i danni dei bombardamenti. Le macerie sono ovunque. Case sventrate. Muri abbattuti. Ovunque regna il caos. Tutti suonano il clacson. Non esistono cartelli stradali. Non ci sono regole. Si viaggia alla meno peggio. Ci si butta nel traffico di auto vecchie e ammaccate e si spera in Dio. Le donne sono la parte debole della popolazione. Girano per strada in gran parte velate. Non sappiamo, noi occidentali, se per convinzione o per costrizione. L’impressione è quella di vivere all’interno di un simil stato islamico. Gli stranieri sono guardati con curiosità. Al vecchio porto scendiamo dall’auto. Con noi ci sono due giovani donne con il capo scoperto. Forse abbiamo azzardato troppo. In breve ce ne andiamo. Capiamo che non è aria. L’hotel che ci accoglie è un’oasi in un oceano di dolore. Già l’ordine attorno alla struttura ci coglie di sorpresa. Quasi stride in maniera esagerata rispetto a quanto abbiamo visto per alcune ore: dalla miseria più assoluta si passa quasi al lusso. Come questo albergo, in città ce n’è qualche altro, per lo più frequentato dagli uomini delle Nazioni unite. Qua si vive di aiuti umanitari. Le materie prime scarseggiano ovunque. Il cemento necessario per la ricostruzione è materiale assai raro. Dalle macerie operai al lavoro ricavano il ferro per riciclarlo nelle nuove costruzioni. Si lavora come e dove si può, anche perché l’energia elettrica va e viene tutti i giorni ogni otto ore. Ci si deve dare da fare anche di notte, quando la luce è presente. Passiamo in religioso silenzio fra le rovine di un grande ospedale abbattuto dalle bombe che qui giungono dal vicinissimo confine. Da parte di Hamas si lanciano i razzi Qassam. Dall’altra parte troppe guerre, negli ultimi anni, hanno generato un odio crescente con conseguenze sulla popolazione evidenti anche agli occhi del visitatore occasionale. Gaza non solo è una grande prigione a cielo aperto. S…

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