IL PATRIARCA: “AI DISPERATI NON SI PUO’ CHIEDERE LA LOGICA”

Ancora una volta, più dei luoghi i volti. Più delle pietre, anche se antiche di duemila anni, le pietre vive. E’ stato un viaggio ricco di incontri. Un pellegrinaggio, quello vissuto la scorsa settimana, alle origini della fede grazie al quale si è incrociata una testimonianza autentica, incarnata, vera, bella, fresca. In Terra Santa non si fanno tanti giri di parole. Si vive, e si soffre anche, sulla propria pelle cosa può significare stare alla sequela di Gesù Cristo. A Gerusalemme i pellegrini sono scarsi. Gli italiani sono stati i primi ad annullare le prenotazioni dopo i recenti fatti di sangue avvenuti a Parigi. Le notizie che trapelano dalle televisioni amplificano paure e timori. Quando si arriva nella città santa si comprende che la realtà è diversa da come viene rappresentata. Certo, i posti di blocco sono tanti e i militari presidiano tutti i punti chiave. Tuttavia, i dieci componenti la delegazione italiana in visita ai progetti finanziati dalla Cei grazie ai fondi 8xmille non avvertono particolare tensione o paura. Il colloquio con il patriarca fa comprendere il clima particolare. “Grazie per avere avuto il coraggio di venire in Terra Santa in un momento in cui tutti hanno paura”, dice monsignor Fouad Twal che subito aggiunge: “Abbiamo bisogno di creare una cultura di pace. Gli accoltellamenti di questi ultimi tempi non servono a nulla. Ma è anche vero che a gente disperata non si può chiedere la logica”. La vera salita al calvario è stata la visita alla città di Gaza e alla minuscola comunità cattolica presente nella Striscia. Qui si contano quasi un milione e 700 mila abitanti. La presenza cristiana non arriva alle duemila unità. Don Mario da Silva è un 36enne prete brasiliano. E’ il parroco della chiesa intitolata alla Sacra famiglia. I battezzati non
arrivano a 150, ma ogni pomeriggio le suore che sono con lui (sono tutti missionari del Verbo incarnato) radunano i ragazzi per vivere l’esperienza dell’oratorio. “Non possiamo fare processioni o vie crucis – dice don Mario – ma se vado in giro devo indossare la talare. I musulmani non avrebbero rispetto per me se io per primo non esprimessi, anche con segni esteriori, la mia fede. Nelle nostre scuole (ce ne sono cinque, di cui tre cattoliche) la croce è presente in ogni aula e nessuno si permette di dire nulla anche se la stragrande maggioranza degli studenti è islamica”. Si deve stare comunque molto attenti. Aumentano i dispetti verso la parrocchia. Ogni tanto arrivano lanci di sassi. “Non esco mai da solo – aggiunge don Mario -. Non è una persecuzione alla luce del sole. E’ strisciante. Per esempio: capita che dicano di non frequentare i negozi gestiti da nostri fedeli. Oppure per i matrimoni: non è possibile convertirsi dall’islam al cristianesimo. E qui non solo la donna è obbligata a seguire la religione del marito. Se un cristiano desidera sposare un’islamica, prima si deve convertire alla fede di Allah”. Manifestarsi cristiani, in questa luoghi, è già una grandissima testimonianza. Anche nelle scuole pubbliche non è semplice rivelare la propria religione. Si rischia l’emarginazione. Ragazzi e ragazze sono divisi e si va in classe su due turni giornalieri. Il primo inizia alle 7 del mattino. Velo bianco attorno al viso e vestito lungo nero per le giovani studentesse che comunque portano in spalla zaini alla maniera occidentale. Non si vedono particolari firme, ma la moda è la stessa anche a Gaza. “La nostra resistenza è studiare – dicono in coro alcuni studenti dell’ultima classe prima della maturità alla Holy Family School, la migliore tra quelle presenti in questo lembo di terra grande una volta e mezzo il territorio di Cesena -. Possiamo continuare a sognare e a pensare che un giorno il mondo potrebbe cambiare. Noi non siamo terroristi. Non è islam quello. Ditelo quando tornerete in Italia”. E il dopo Parigi? “Giustamente da ogni parte si condanna quanto è accaduto – dice una ragazza molto determinata – ma qui da noi fatti del genere …

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