L’intervista. “Impariamo a essere popolo”

Il convegno nazionale dei settimanali diocesani metterà in contatto la diocesi aquilana con le “voci” delle comunità di tutta Italia. Una presenza mediatica “amica” forse mai tanto ampia e corale, che l’arcivescovo dell’Aquila Giuseppe Petrocchi attende con gioia.
Quale Chiesa incontreranno i giornalisti cattolici di tutta Italia?
Una Chiesa che ha sperimentato una profonda sofferenza, e il dolore può prostrare ma anche rafforzare la vita spirituale e relazionale. La nostra è una comunità che si sta interrogando e che dentro l’oscurità del sisma ha imparato a vedere anche fonti di luce intensa. Oggi vuole testimoniare che la grazia consente di aprirsi alla risurrezione.
Sin dal suo ingresso, un anno e mezzo fa, ha chiesto di vivere la sofferenza del terremoto nel segno della speranza. Si sente seguito lungo questa strada?
È una proposta che ha trovato chi si è messo subito in cammino e altri che faticano di più. Ma quello che conta è giocare fino in fondo la carta della fiducia in Dio e credere che il cambiamento, anche radicale, è sempre possibile. Penso sia essenziale per ogni comunità cristiana domandarsi di quali risorse dispone e quali problemi la condizionano. La sintonia con papa Francesco ci fa avvertire l’urgenza di non ripiegarci e di essere Chiesa in uscita, ma occorre esserlo andando verso gli altri e non fuggendo da sé.
In cosa consiste l’identità aquilana che le altre diocesi toccheranno con mano?
Come tutti i centri che hanno una storia secolare alle spalle, all’Aquila la cultura sedimentata nei secoli si esprime attraverso forme architettoniche: chi viene qui impara ad ascoltare una parola che non è muta e che si fa capire bene, se si hanno orecchie attente. È la parola di una monumentalità sacra, di una fede che si è espressa anche attraverso edifici di una straordinaria bellezza. La nostra comunità si è sempre rialzata dai terremoti con una tenacia che meraviglia. A un occhio attento non sfuggono ferite che parlano di una Chiesa e di una città che hanno tratto dalla loro fede la forza per riscattarsi da una sindrome depressiva giunta a più ondate. Questa comunità ha espresso numerosi santi, e ha ancora un suo volto ben preciso: gente di montagna, dignitosa, anche introversa, ma ricca nelle relazioni, capace di soffrire, di andare avanti con pazienza cristiana e umana. Ci sono anche deficit, come il rischio di un individualismo per sezioni sociali che non sempre consente di trovare le sinergie per rispondere alle sfide. Le rivalità devono svanire davanti alle necessità comuni, come accadeva nel Medioevo quando le campane richiamavano tutti a superare le divisioni per un’emergenza: oggi L’Aquila deve sentire le campane che la chiamano a risorgere come popolo e non come somma di individui.
Cosa deve imparare ancora la sua comunità?
A essere popolo assai più che popolazione. C’è “popolazione” quando si parla di un insieme di persone che abitano uno stesso territorio, mentre c’è un popolo quando c’è consapevolezza comune, certezza di un’appartenenza, un retroterra storico e culturale che vive in tutti e in ciascuno, una volontà di guardare al futuro in modo comunitario. Se la gente affronta il post-terremoto come popolazione non ce la farà: deve essere popolo, in senso religioso e sociale.
 
Francesco Ognibene
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