Il suo primo incarico a Marina di Grosseto: ci andò con una bicicletta a noleggio. Poi a Giuncarico, tra le famiglie dei minatori. Quindi a Grosseto, parroco del Duomo nel periodo dellAlluvione del 66. Oggi, a 88 anni, monsignor Cecioni è ancora coriaceo e santamente testardo come solo sanno esserlo
i maremmani. «Ho sempre avvertito limpegno, la soddisfazione, la gioia e – lo confesso – talvolta anche la fatica, di vivere in mezzo alle persone che i miei vescovi mi hanno affidato»
Parafrasando il titolo di un vecchio film della saga «Don Camillo e Peppone», potremmo dire che don Franco Cencioni è un «monsignore ma non troppo», perché al titolo ha sempre anteposto il suo desiderio, anzi il bisogno di essere tra la gente, con la gente e per la gente. Un prete con addosso lodore delle pecore – per dirla con Papa Francesco – poliedrico quanto basta per occuparsi davvero di tutto: dalle parrocchie, ai beni culturali; dai giovani, agli anziani; dalla cura spirituale delle persone alla costruzione delle chiese.
La sua ultima fatica, quella che lo sta impegnando con lentusiasmo e la gioia di chi crede che «non si finisce mai di iniziare a camminare», è la pubblicazione del secondo volume della «Storia ecclesiastica della città e della diocesi di Grosseto» di Francesco Anichini, per la quale si sta dedicando con la solita dedizione, ma anche con una buona dose di sana «follia», sapendo che più le imprese sono alte, più la sfida per lui diventa affascinante.
Coriaceo e santamente testardo come solo sanno esserlo i maremmani, abituati a lottare contro le disavventure della vita, a cadere e rialzarsi, ma anche «aperti ai venti e ai forestieri» – secondo una felice espressione dello scrittore grossetano Luciano Bianciardi – don Franco Cencioni ad 88 anni non è ancora domo. Nel suo sguardo vispo cè lentusiasmo curioso di chi ha ancora voglia di mangiarsela la vita, grato per quel che ha sperimentato, ma non per questo appagato; attento alle novità, appassionato delluomo, non come lo vorrebbe, ma comè. È prete da 64 anni: fu ordinato il 23 dicembre dellanno santo 1950 a Porto Santo Stefano (lui nativo dellentroterra collinare maremmano, dove la vita era soprattutto spaccarsi la schiena sui campi o nelle miniere), in occasione della consacrazione della chiesa parrocchiale della località turistica, ricostruita dopo la distruzione dei bombardamenti bellici del 43.
Da allora don Franco non si è più fermato. Aiutato da un fisico longilineo ed asciutto, ma soprattutto dallessersi buttato corpo e anima nellavventura della vita, non ha mai detto no ad ogni sfida pastorale che i vescovi gli hanno messo davanti. «Per me – dice oggi – essere prete è questo: sentire di far parte di quella compagnia che Gesù volle quando chiamò i primi dodici apostoli perché stessero con Lui. Questo ho cercato di fare», dice mentre pesca nei ricordi (ha una memoria di ferro) e «condisce» di aneddoti divertiti ogni racconto della sua esistenza, che ogni volta appare come una cavalcata impetuosa – da purosangue maremmano indomito – dentro una vita sacerdotale che non ha conosciuto soste, cedimenti, titubanze. E soprattutto sempre tra la gente. «È per loro che sono stato ordinato prete – dice con semplicità – La mia è una vocazione apostolica, per cui ho sempre avvertito limpegno, la soddisfazione, la gioia e – lo confesso – talvolta anche la fatica, di vivere in mezzo alle persone che i miei vescovi mi hanno affidato». E i campi che don Franco Cencioni ha «arato» sono stati molti: lAzione Cattolica, parrocchie piccole e grandi, i giovani studenti delle scuole superiori in cui per molti anni è stato insegnante di religione, il Cif, la Misericordia e molte altre realtà.