UNA PRIGIONE A CIELO APERTO

Non vedo mio figlio da 25 anni. I miei nipoti? Non li ho mai conosciuti». Nonna Naima ha 84 anni, vive a Gaza e non è mai uscita dalla Striscia. «È la mia terra, qui sono nata e qui voglio morire ». Se anche volesse andarsene, probabilmente non potrebbe. E il figlio, che oggi vive a Gerusalemme, non può andare a trovarla. Rischierebbe di non ottenere il permesso per uscire da Gaza.
Sembra la descrizione di una prigione. E, in effetti, lo è. Solo a cielo aperto. Fuori dalla Striscia le cose vanno un po’ meglio, ma i posti di blocco, i muri, le barriere rendono difficile qualsiasi spostamento. Tutto è complicato, qui in Israele, dove negli ultimi mesi le tensioni sono tornate a farsi sentire con quella che viene chiamata l’Intifada dei coltelli.
Nei ricordi di adulti e bambini solo bombe
Nella Striscia di Gaza, in modo particolare, la guerra ha distrutto tutto. Negli ultimi anni si sono susseguiti tre conflitti e ben poco si è salvato. Per chi arriva da fuori, come noi giornalisti della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), in viaggio in Terra Santa per visitare i cristiani del posto e i progetti sostenuti dalla Cei tramite i fondi dell’8xmille, sembra impossibile che la vita, qui, sia questo. Che una mongolfiera con una telecamera controlli tutti dall’alto. Che entrare e uscire sia un’impresa impossibile, salvo permessi speciali. Che la povertà bussi alla porta della maggior parte della popolazione. Che gli abitanti del posto siano prigionieri in casa propria. Ad accoglierci, dopo aver percorso il lungo corridoio che separa la Striscia di Gaza dal resto del mondo, c’è padre Mario da Silva, prete brasiliano che guida la parrocchia locale. Ci racconta che i cristiani, all’interno della Striscia, sono sempre meno. Ad oggi, se ne contano 130, su un totale di un milione e mezzo di abitanti. Insieme a padre Mario visitiamo alcuni di loro. È così che incontriamo nonna Naima. Ci racconta, a tratti con la voce rotta dal pianto, della solitudine, della sofferenza, delle difficoltà della vita di ogni giorno: «Sto male, ho fame». Mancano il cibo, le medicine. La corrente elettrica funziona per otto ore, poi per altrettante viene staccata. La donna prega, chiede aiuto a un’immagine stropicciata di Gesù che tiene tra le mani: «A volte litigo con lui, quando non ho nulla da mangiare o per curarmi». Ad aiutarla sono la parrocchia, le suore e don Mario: «Facciamo quel che possiamo, ma non è facile soddisfare le richieste di tutti».
Nei ricordi di Naima rimbombano ancora gli spari della guerra del ’67, quella dei Sei giorni. Il ricordo dei militari che entrano nella chiesa in cui si è rifugiata, la paura di perdere la vita. Da allora, di guerre, la donna ne ha viste tante altre: «Magari non ci fossero».
 
Dalla Chiesa un aiuto concreto
Purtroppo non serve avere 84 anni, come Naima, per aver visto due o tre conflitti. Anche i più piccoli conoscono fin troppo bene il rumore delle bombe e ne subiscono le conseguenze. Come i bambini disabili che abitano nella struttura accanto alla parrocchia di don Mario. Di loro si occupano le suore di madre Teresa di Calcutta. I bimbi sono una quarantina, piccoli grandi eroi scampati alla distruzione della propria casa, a una società che vede i disabili come qualcosa da nascondere, a situazioni di povertà estrema. Non importa se hanno sofferto o soffrono ancora. Loro sorridono. Non smettono di farlo. Tendono la manina e la stringono a noi giornalisti. Giochiamo con loro, li prendiamo in braccio. Siamo entrati pensando che avremmo donato noi qualcosa a loro. Quando usciamo ci rendiamo conto che è accaduto il contrario. Quei sorrisi, certamente, li porteremo per sempre nel cuore. Insieme a quelli delle suore che si occupano di loro, che giorno dopo giorno, con fede, forza e coraggio li accudiscono e danno loro l’amore delle mamme e dei papà che quei bimbi no…

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