MEDIA CATTOLICI
Voci di carta

 
Sono migliaia e provenienti da tutto il mondo, le “Voci di carta” raccolte dal giornalista Angelo Paoluzi nel volume di recente pubblicazione che disegna, pagina dopo pagina, il ritratto di una stampa, quella cattolica, “universale come la Chiesa”. A caratterizzarle, spiega il giornalista in un’intervista al Sir, “l’unicità del messaggio, perché si rifanno al Magistero, e il linguaggio, che è quello dell’ascolto, del dialogo, del rispetto dell’altro. Non c’è spazio per i fatti pruriginosi. E poi dentro c’è il messaggio evangelico. Questi toni – prosegue – danno molto più fastidio di quelli polemici, perché non c’è resistenza, e se si usa la non violenza per rispondere alla violenza, questa si esaurisce in sé stessa”.
 
Come è oggi, in Italia e nel mondo, la situazione del giornalismo cattolico?
“Quella italiana è una buona situazione, una tra le migliori, assieme alla Francia e agli Stati Uniti. Il Brasile, ad esempio, vive molte difficoltà per quanto riguarda la carta stampata, ma compensa con la radio, che arriva dovunque. La forza della stampa cattolica, d’altra parte, è la diffusione capillare sul territorio, basti pensare ai giornali diocesani. Parlano della gente e della vita delle persone”.
 
E quali sono, invece, le debolezze?
“La situazione finanziaria. Aprire un blog in Africa, ad esempio, costa moltissimo. In certi Paesi, l’analfabetismo, che però si combatte con le letture collettive: uno legge, in cinquanta ascoltano. Manca la ‘rete’, a volte. Compensano esempi virtuosi come quello di Radio don Bosco, in Madagascar, che riprende i giornali e li ripropone, fungendo così da megafono. La debolezza più grande, in Italia, rimane una: alla stampa cattolica mancano quattro lettori su cinque, tra quanti si dichiarano cattolici. Il 22% degli Italiani si dichiara praticante: se, di questi, il 5% acquistasse i giornali cattolici, le vendite decuplicherebbero”.
 
Esistono ancora certi pregiudizi che vogliono quello cattolico come un giornalismo di serie B?
“Il giornalismo cattolico non ha nulla da invidiare al giornalismo tout court, ma il pregiudizio c’è ancora. Ed esiste anche a causa di un colpevole ritardo da parte della Chiesa, che fino a metà ‘800 considerava il giornalismo una forma di libertinismo. Questo atteggiamento ha comportato cent’anni di ritardo”.
 
In che cosa, praticamente, un giornalista cattolico si differenza da un giornalista laico?
“La differenza è nel riserbo, nel linguaggio più casto che gli altri non usano, nella preparazione. La differenza la dice San Paolo nel quarto capitolo della Lettera agli Efesini: ‘Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano’”.
 
Quali doti non devono mancare a un giornalista e quali, invece, possono essere sviluppate nel tempo?
“La vocazione e il talento importano, certo. Serve attenzione. Dicevo sempre ai ragazzi dell’Università: di voi venti, solo uno diventerà giornalista, così gli altri diciannove erano spronati a fare di più. Serve sapere le lingue, usare per bene il mezzo, instaurare rapporti con gli altri. Col tempo si può imparare la sintesi: si comincia con aggettivi e avverbi e poi, a fine carriera, se in un intero pezzo ci sono un aggettivo e un avverbio, è già tanto”.
 
A dispetto delle previsioni, il giornalismo di carte non è (ancora) morto. E lei sostiene che non morirà.
“La carta fruscia, odora, fa storia, esiste. Ed esisterà”.
 
Come vede il futuro dell’informazione?
“Il futuro è incognito. Ci muoviamo su una palude. Vediamo, ascoltiamo e tocchiamo. C’è un mezzo d’informazione per ognuno dei nostri s…

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