Dal piano bar alla clausura: «Ecco la mia vera musica»

Il giorno di Pentecoste rinnoverà i voti religiosi di povertà, castità e obbedienza pronunciati per la prima volta lo scorso anno tra le carmelitane del monastero di clausura “Janua Coeli” (Porta del Cielo) di Cerreto di Sorano, piccolo borgo della Maremma meridionale, in provincia di Grosseto, ai confini con Umbria e Lazio, situato nel territorio della diocesi di Sovana-Pitigliano-Orbetello. La monaca carmelitana di cui parliamo è una veronese: suor Maria Abigail Figlia di Dio, al secolo Licia Palmieri, 46 anni, che dal 1° novembre 2012 condivide con altre 15 consorelle di età diverse l’esperienza della clausura.
Nata a Caprino, Licia ha vissuto sino a 20 anni a Costermano, quindi è andata ad abitare con il padre (separatosi dalla moglie alcuni anni prima) in Valdonega, nella parrocchia di Santo Stefano, dove già si trovava il fratello e li avrebbe raggiunti la sorella. «Lì ho incominciato il cammino che mi ha condotto qui – ci dice –. Mi sono innamorata di Gesù sin dalla prima Comunione. Durante le medie, presso le piccole suore della Sacra Famiglia di Castelletto di Brenzone, dicevo che volevo farmi suora e le religiose insegnanti erano le mie amiche preferite». Dopo la scuola dell’obbligo, non le fu possibile seguire il consiglio di chi le suggeriva di studiare canto in Conservatorio, ma andò subito a lavorare in una fabbrica di scarpe, «un’esperienza che mi è tornata molto utile per l’attività sartoriale che svolgo qui in monastero». Tuttavia l’azienda fu costretta a chiudere e così la giovane Licia presentò domanda di assunzione presso la clinica “Pederzoli” di Peschiera dove entrò grazie ad un contratto di formazione lavoro. «La mia fortuna fu proprio la possibilità di studiare, grazie a questo bellissimo contratto. Avevo 19 anni». Come infermiera generica era apprezzata e benvoluta dai pazienti e dai superiori. Ma la sua vera passione era il canto e, pur continuando a lavorare in ospedale, arrivando in città le si spalancò davanti un mondo nuovo. «Una delle prime cose che feci fu quella di studiare canto leggero. Andai al Cim (Centro italiano musica) da un bravissimo insegnante che si chiamava Franco Bignotto. Inoltre, grazie ai suggerimenti di Ivana Spagna, consultai una rivista dove in un’inserzione si cercava una cantante e così entrai a far parte di un gruppo di ballo liscio. In seguito passai in un altro più strutturato, dove c’era anche la voce maschile».
Casualmente conobbe Gabriele, un giovane diplomato in pianoforte che insegnava al Cim («ma non l’avevo mai incontrato», ci dice) e di sera cantava al piano bar “Il Prisma”, vicino a Negrar. «Andai, spinta dal desiderio (che non si realizzò) di cantare un pezzo che fosse stato scritto apposta per me, e feci sentire la mia voce in un paio di canzoni. Mi accorsi che si era creata una sintonia talmente particolare che la gente pensava lavorassimo insieme. Veniva lì e ci chiedeva i brani. Noi ci guardavamo e ridevamo. La cosa capitò per un paio di sere. Abbiamo cominciato così, per gioco». Nacque un duo molto apprezzato dove si utilizzavano delle basi registrate «ma molta musica era suonata col pianoforte e, pur seguendo una scaletta, ci divertivamo anche ad improvvisare, a duettare. Mina, Mia Martini, Whitney Houston e Mietta erano le cantanti che interpretavo più volentieri, tanto che in qualche articolo mi definirono “la Mietta veronese” perché avevo un timbro con moltissimi toni bassi, quelli che adesso mi mancano – ci confida con un pizzico di nostalgia “vocale” –. Inoltre nel piano bar c’era un’atmosfera molto bella perché si trattava di musica dolce, calma, non da discoteca. Quindi erano adatti i toni bassi, caldi, con una certa corposità, che sono più “romantici” rispetto allo strillato». Il suo repertorio contava qualcosa come 300 pezzi.
Non sono mancati anche alcuni passaggi televisivi. In Rai nel 1992 cantò L’Immenso di Amedeo Minghi («uno dei miei pezzi preferiti, che si conclude con le parole “l’immen…

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